In un qualsiasi giorno d’inverno potreste salire verso il centro di Edimburgo dal World’s End Close, il vicolo della fine del mondo. Un nome dato da chi visse in tempi in cui quella era effettivamente la fine del mondo. Da qui cogliereste facilmente l’essenza della Old Town di Edimburgo: bella, gotica, e un po’ desolata. Davanti a un pub potreste incontrare qualche solitario avventuriero che ha attraversato l’incrocio ricoperto di neve per andare all’università o in un hotel.
Il sette agosto è il caos.
Dall’università fino al palazzo di Summer Hall, la città è in fermento per l’Edinburgh Festival, la più grande kermesse di arti al mondo. Sotto l’insegna Edinburgh Festival in realtà si raccolgono tutti gli eventi che si svolgono ad agosto nella capitale scozzese, di cui il “Fringe Festival” è il maggiore: nel 2015 ha avuto 50.459 performance, 3.314 show su 313 palchi differenti. Il tutto in tre settimane. Straordinario risultato se si pensa che all’inizio, nel 1947, il Fringe era un evento indipendente, con solo otto compagnie sconosciute e che nessuno aveva invitato ufficialmente. Quelle che il giornalista scozzese Robert Kemp aveva denominato la periferia, il margine del Festival. Il ‘fringe’, appunto.
In questa impresa gli italiani hanno avuto e hanno tuttora un ruolo significativo. Dei tre fondatori del Traverse Theatre, che dal 1963 si adoperarono per elevare lo status artistico del Fringe, fu l’italo-scozzese Richard De Marco a renderlo effettivamente internazionale. Dopo il mondo anglofono, sono gli italiani tra i primi posti per numero di spettacoli, sempre presenti nei premi più importanti: tra gli altri, il Fringe First Award nel 2012 a La Merda, per l’eccellenza nella scrittura, al premio So You Think You’re Funny?, dedicato ai nuovi talenti comici, assegnato a Luca Cupani nel 2015. In quell’edizione in cui erano quasi trenta i gruppi di italiani a partecipare al Fringe, molti presenti dal primo all’ultimo giorno.
Perché spingersi tanto lontano per partecipare al Fringe? Per un attore italiano, e spesso per un attore in generale, il Fringe in fondo è una sfida pericolosa, non un guadagno. Gli artisti devono garantire un numero di entrate, o altrimenti saranno loro a dover pagare. La maggior parte non riesce nemmeno a coprire le spese. Le recensioni valgono oro, ed è spesso la prima settimana di spettacoli a decidere il successo delle restanti tre. Gli attori rimangono in fila per ore per entrare a “Meet The Media”, l’incontro con i giornalisti del secondo giorno, e usare i tre minuti a disposizione, stretti tra un ventriloquo e un attore shakespeariano, per convincere il critico davanti a loro di quanto sia imperdibile il proprio spettacolo, nella speranza che il giudizio sia positivo. Senza contare poi il fattore barriera linguistica, in un festival sì internazionale, ma fondamentalmente anglofono e che predilige generi che i britannici adorano, come la stand-up comedy e il musical, che in Italia si conosco poco o nulla.
Il Fringe è però una porta sul mondo: seguito quotidianamente tanto da giornali britannici come il Guardian che d’oltreoceano come il New York Times, è il passo fondamentale per approdare ad un palco della Theatre Land di Londra o nel resto del mondo. È poi inebriante, perché oltre la sala e le sue duecento persone, c’è una comunità di mezzo milione di persone riunite solo per quel mese a cui ci si può rivolgere.
— Foto: gli acrobati della compagnia italiana Liberi di… mentre si riscaldano prima del loro spettacolo Something, durante il Fringe Festival di Edimburgo.