Cosimo Togna è l’ultimo interprete in vita di Stewartby, la gigantesca fabbrica città che produceva i mattoni per la ricostruzione delle città inglesi dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ricorda tutto: è forse una di quelle persone che hanno più familiarità con il loro passato, piuttosto che con il loro presente. La sua casa è un mix di horror vacui ed amarcord, un salotto lungo e stretto in un’area vagamente popolare, un cucinino e una camera da letto, occupata quasi interamente da un matrimoniale. Sul comodino, le ceneri della moglie.
Lo abbiamo incontrato poco prima, al museo The Higgins di Bedford, dove sfogliava la collezione delle foto e delle riviste dell’epoca delle fabbriche di mattoni. Ritrovava vecchi compagni, amici, qualche rivale. Tutti scomparsi. Una nota malinconica, ed infatti è molto più a suo agio qui, nel suo salotto, dopo una moka e una sigaretta. Inizia a raccontare di come sia finito a fare l’interprete: nel 1945 le truppe americane occupano ancora Benevento. Lui vende castagne con lo zio davanti al comando americano, e fa amicizia con una giovane palestinese. Quando gli chiediamo se abbia avuto qualcosa di più di un’amicizia non risponde, cambia discorso, e non trattiene un sorriso a metà. Impara così un po’ di inglese e si presenta, nel 1949, all’ufficio di collocamento. Si è sposato, ma cerca una vita migliore e vuole partire. Nel 1951 lo mandano nel Regno Unito: treno fino a Milano, poi Calais, traghetto e Londra. Gli stanno per rilasciare la carta d’identità ed assegnare un lavoro, ma deve rispondere ad alcune domande: «Quanti anni hai? Quale era il tuo ultimo lavoro? Sei un comunista? ». Le risposte piacciono, e si ritrova a lavorare come interprete in una miniera di carbone. Quando però i continui scioperi degli inglesi rendono gli italiani, che lavoravano di più e meglio, una presenza scomoda, va a lavorare a Bedford, nelle fabbriche di mattoni. Vive in un ex campo di prigionia, conosciuto allora con il nome più accattivante di Wings Hostel, e ogni mattina si unisce alle migliaia che vanno nelle fabbriche, così grandi da avere il proprio ospedale, i propri pompieri. Dopo qualche anno trova una casa, porta la moglie e vive con lei in quella che ormai era diventata la Little Italy di Bedford.
Mentre prepara un altro caffè, vuole mostrarci quello che racconta. Mette una cassetta nel registratore, la collana vistosa con il crocifisso pende dalla canottiera su cui sembrava cucita, si aggiusta l’anello che tiene al medio. Da un lato c’è una croce, sotto invece è inciso il volto della Regina.
Partono le scene.
Tutto questo non durerà per sempre. All’inizio degli anni ’70 l’industria dei mattoni è in declino. Vede i proprietari che decidono di far saltare in aria prima uno, poi due, tre e così molti altri dei camini della fabbrica, alcune aree vengono chiuse e poi sgombrate, lasciando il vuoto. Sembra che, giorno dopo giorno, la città dei mattoni si ritiri. Pochi italiani ci lavorano ormai, e anche Cosimo ha cercato un altro futuro per sé e i suoi figli. Ha comprato un chip shop. Dove due dei suoi tre figli non vogliono assolutamente lavorare, tanto da dargli fuoco perché chiuda.
Nel 1972, lascia Bedford.
Tornerà molti anni dopo, per raggiungere la moglie malata che si sta curando lì, proprio in quell’appartamento. Scopre però una città molto differente. Gli operai hanno lasciato il posto ai pendolari che vanno a Londra e nelle imprese hi-tech lì al nord: Sony, Airbus. La comunità italiana si ritrova ancora negli stessi posti di un tempo, ma lui ha perso la consuetudine che aveva con i suoi membri. Dopo trentacinque anni è ormai un estraneo, e per molti al Club Italia è quello che ha mollato. Per Cosimo, non è cambiato nulla.
Nella sua idea, la fabbrica di mattoni è ancora là, e la sua vita non ha perso le fila di quell’avventura da emigrante che tanto aveva amato. Ci mostra, come se fosse la sua carta d’identità, un pezzo di carta ingiallito. C’è stampato Arrival in the UK e, battuto a macchina, 10.04.1951. È il lasciapassare che ha portato con sé per i decenni successivi al suo arrivo.
Eppure, dalla sua partenza molto è cambiato.
Mentre la pioggia batte pigra sulle voragini lasciate dall’abbattimento delle ciminiere mi viene in mente, per caso, l’unico commento che si era concesso Cosimo sulla ragazza palestinese:
«Gli Americani, quando andarono via, andarono tutti via. Prima di partire io in Inghilterra erano già andati via. Però, l’unica che, che mi ricordo sempre, la canzone che io non me la scordo mai, eh eh, che mi hanno imparato loro, ogni giorno che la incontravo o quando stava con le compagne, e scherzavano con gli italiani, è la canzone You are my Sunshine … quella che fa:
You are my sunshine, my only sunshine. You make me happy when skies are grey. You’ll never know, dear, how much I love you.
Please don’t take my sunshine away».
— Foto: Giacomo Togna mostra il documento con cui fu registrato al suo arrivo nel Regno Unito, nel 1951.
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